Napoli è una città povera, il nuovo Sindaco dovrà creare le condizioni per gli investimenti che generano sviluppo ed occasioni di lavoro. Se il Comune è indebitato, i fondi del “recovery plan”, però consentono l’impiego nel recupero ambietale. La bonifica della terra dei fuochi, ad esempio, l’avvio di un ciclo industriale dei rifiuti che superi gli ideologismi; il risanamento della pericolosa edilizia fatisciente, culla della criminalità. Sarebbero il giusto viatico per abbandonare l’assistenzialismo e mettere in moto le potenzialità che pur la città possiede. Se la politica è morta, il movimentismo non sta bene ed ha comunque fallito su tutti i fronti: politico, economico, sociale e soprattutto amministrativo. Roma, Torino, Napoli avanti a tutte, patiscono un declino inarrestabile. Il fallimento di un modello di sviluppo asfittico che la pandemia semmai fosse possibile, ha avuto il “merito” di rendere edotte tanto le classi lavoratrici, quanto i ceti produttivi ripiegati entrambi nella ridotta del turismo, settore sovraesposto alle turbolenze della globalizzazione. Una economia fragile, precaria, monosettoriale, suscettibile a troppe variabili di sistema indipendenti dalla bravura e dai meriti degli operatori. Un modello amministrativo, quello civico-movimentista, che ha fissato ad obiettivi la desertificazione industriale in ragione di un ambientalismo “contemplativo” e la resistenza ad oltranza ad ogni attività economica infrastruttuale, le sole capaci di trascinare a cascata un indotto di sviluppo professionale e posti di lavoro reali che si è pensato di surrogare con l’assistenzialismo di conio neo clientelare, affidandosi alle mani della finanza intermediata nella particolare contingenza epidemica, dalle Istituzioni della Unione Europea. Ebbene, se mettiamo a fuoco le proposte per i prossimi rinnovi amministrativi, non possiamo che prendere atto di un elemento sconcertante: ad avere il polso sul da farsi; ad offrire una ricetta di sviluppo percorribile perché le grandi città ristrutturino le loro economie e ritrovino l’antico splendore, è la vecchia politica. La vecchia scuola travolta da tangentopoli, è quella che ci offre il quadro più chiaro e plausibile, la ricetta più convincente. E’ una delusione forte, anche per noi. Una presa d’atto, non una riconversione di quelle che vanno di moda negli ultimi tempi. Teniamo a sottolinearlo soprattutto per quanti sono assidui visitatori di queste pagine in rete da molti anni. Lettori che hanno imparato a conoscere le nostre idee sulla politica e sull’etica che deve necessariamente ispirarla, epperò se le nuove proposte devono essere l’alternativa tra l’usato insicuro dei Bassolino ed il nuovo improbabile dei Fico che dovrebbe misurarsi nella pratica concreta dei trasporti, dei rifiuti, del patrimonio da mettere a reddito, delle Partecipazioni da ristrutturare, dei servizi al cittadino, dopo venti anni di sinistra e dieci di Centri Sociali al potere nella metropoli del mezzogiorno, carissimi, meglio, molto meglio l’amministrazione dei partiti della prima Repubblica. Le masse popolari sono cadute in disgrazia. E’ questa la fotografia del reale. Che cosa se ne fa Napoli dell’amore, della melodia, del bel canto? Che cosa se ne fanno i napoletani dei diritti agitati ad ogni pie’ sospinto alla stregua di una cortina fumogena? Che cosa se ne fa Napoli dell’accoglienza se anch’essa è preda della disperazione nera? A che cosa servono le belle parole di giustizia ed equità sociale se poi i tributi sono al massimo delle aliquote ed in media si deve sborsare il doppio rispetto a Milano per spedire i rifiuti all’estero piuttosto che valorizzarli in loco? Napoli ed il meridione si sono spopolate. Hanno perso i migliori talenti perché negli ultimi venti anni gli orizzonti esistenziali sono spariti. I giovani sono indisponibili oggi a spendere l’intera loro vita lavorativa nel volontariato assistito. Preferiscono emigrare piuttosto che rassegnarsi a servire ai tavoli dei ristoranti o recapitare pizze e caffé da un capo all’altro della città, il più delle volte lavorando in nero. C’è bisogno di ritornare alla politica. C’è urgenza diprogrammare e lavorare per realizzare piuttosto che impedire, rinviare o rallentare. Il civismo così come il movimentismo dei Centri Sociali che hanno partorito i Fico e la Napoli autonoma immiserita dalla retorica del buonismo amorevole fuori luogo; la stessa ricetta del tutti insieme ampiamente sperimentata da Bassolino, sarebbero destinate al fallimento, all’implosione inevitabile. Napoli ha bisogno di respirare aria fresca, di aprire l’orizzonte del suo Golfo al commercio internazionale; alle produzioni locali; all’industria tecnologica; alla manifattura artigianale di qualità. Napoli deve diventare sede delle grandi agenzie internazionali ed europee che possono trovare spazi adeguati nel suo centro direzionale. A Napoli bisogna far arrivare con ogni mezzo quella borghesia produttiva e professionale seguendo i modelli di sviluppo della vecchia classe politica della prima Repubblica, che nonostante i suoi guasti, fu capace di programmare sviluppo e convincere gli imprenditori del nord a delocalizzare parte delle loro produzioni al sud in cambio anche di favori e vantaggi fiscali, pur di mantenere la coesione sociale del paese intero, unito.
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