Merkel e Theresa May, il Primo ministro conservatore del Regno Unito che ha sostituito Cameron dopo la sconfitta al referendum sulla Brexit, brigano per ridimensionarne gli effetti e mantenere inalterati i rapporti economici della GB con l’area dell’Unione tanto che Nigel Farage leader dimissionario dell’Ukip, partito euroscettico, minaccia il ritorno sulla scena politica inglese. Farage che si era ritirato per aver raggiunto l’obiettivo con la vittoria del leave al referendum, ragione del suo impegno in politica, ha rotto il silenzio ed in una recente intervista alla TV Russia-today ha dichiarato che Brexit deve inequivocabilmente significare la fine della libera circolazione, l’uscita dal mercato unico europeo ed il ripristino della sovranità sulle acque territoriali del Regno Unito. Farage ha poi lanciato un avvertimento alla May nel caso dovesse, in combutta con la Merkel, azzardarsi a tradire il voto per il “leave” di 17 milioni di inglesi: sono pronto a riprendere la guida del movimento maggioritario che si è espresso per liberare Londra dalla gabbia costruita dai burocrati di Bruxelles. Merkel che considera l’Unione Europea alla stregua di un’appendice della Germania, non si è lasciata turbare dalle intemperanze di Farage ed ha confermato che il processo di uscita del Regno Unito sarà necessariamente lungo e complesso perché “dobbiamo negoziare sulla base dei nostri interessi“, vale a significare degli interessi tedeschi. Sarà dunque una Brexit sulla parola quella che alla meglio vedrà la luce nel 2019, i tedeschi infatti non vogliono pagare gli 11,3 miliardi di euro di contribuzione fin qui sborsata dalla GB in qualità di membro aderente all’Unione, circostanza che sia Mekel, sia Hollande prossimi alle consultazioni elettorali non possono permettersi di sottovalutare ragioni per le quali esercitano su Teresa May pressioni perché prenda tempo e sospenda la decisione di inoltrare l’istanza ufficiale a Bruxelles di uscita dalla UE. Sembrano svanire quindi anche le speranze della piccola Italia pur impegnata a promuovere vertici e dichiarazioni di principi: la City non ha rinunciato a fondersi con la borsa di Francoforte, difficilmente le banche d’affari trasferiranno le loro sedi a Milano come auspicato per trarre qualche sia pur minimo vantaggio dall’abbandono degli inglesi. Uscire dalla UE è cosa ben diversa dal rompere le relazioni coi nostri “partners”, ha dichiarato Boris Johnson ministro degli esteri di Teresa May. Si allontanano anche gli scenari economici catastrofisti della Brexit che nelle intenzioni dovevano intimorire e dissuadere ogni accenno di emulazione da parte di altri paesi in cui l’euro scetticismo monta con sempre maggiore consapevolezza. Contro ogni previsione ed in contro tendenza anche rispetto ai timori espressi dalla stessa Banca d’Inghilterra, la Brexit non ha al momento prodotto danni. I disoccupati sono scesi a luglio di 52.000 unità; gli occupati sono al massimo storico del 74,5%; le richieste di sussidi sono scese di 8.600 unità ed i salari sono aumentati del 2,4%. Lo spauracchio della deflazione che affligge l’Europa in Inghilterra è diventato inflazione e si attesta al 2%. Le previsioni la danno in risalita al 3% entro maggio 2017 con tutto quello che ne consegue in termini di crescita e remunerazione del risparmio sotto minaccia invece negli Stati dell’eurozona. Inoltre, i limiti adombrati all’immigrazione che inevitabilmente la Brexit imporrà, hanno già determinato un incremento dei salari per i lavoratori di basso profilo dal 0,2% al 0,6%. Tu chiamale se vuoi emozioni populiste, ma si tratta di numeri a ricoprir di terra una piantina verde sperando possa nascere un giorno una rosa rossa…
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