La grande proletaria si è mossa in sella ai trattori a concimare di letame la vecchia, sterile, orrida, aritificale Unione di Bruxelles perché germogli una nuova, rigogliosa Europa delle nazioni che fecero la storia e segnarono la civiltà e che oggi si ritrovano al cappio della finanza apolide i cui tentacoli corruttivi s’incuneano nelle architetture delle istituzioni sovrannazionali di governi non eletti. Sofisticate derivate degli Stati, proiezioni del fantastico immaginario platonico; vuote di valori tangibili e di tradizioni autentiche, agitate da oscuri figuri chiusi in asfittiche batterie della pianificazione algoritimica; concentrati corruttibili d’inconfessabili interessi lobbistici, al primo lezzo di organica materia per merito degli agricoltori, le centrali del potere che da decenni prova a ricondurre la vita delle masse popolari europee all’unico ordine baricentrico dove operano gli attori del flottante lontano dai bisogni e prossimi al governo transnazionale, sembrano essersi ridestati per un momento al fresco profumo di libertà che lieve si alza al mattino dalla santa terra dei campi lavorati. Nato nei boschi, figlio di spaccalegna e nipote di contadini chi scrive comprende e fraternizza con quelle braccia forti di fatica e quelle gambe innervate dal passo pesante che avanza tra le zolle dure dissodate dal sudore fino a divenire giardino di bontà e sazio respiro di felicità. I contadini non si sono lasciati incantare dalle nomenclature bruxellesi che alla stregua delle oligarchie russe, con metodo e disciplina meno rozza, ma più efficace, da decenni ci danno da bere le magnifiche sorti progressive dei mercati aperti e dei confini accoglienti; delle teorie di società aperte che generano diritti e trascurano il sacrificio ed il dolore di generazioni per conquistare un pezzo di terra e trarci da vivere per sé ed il nostro prossimo. La terra ed i frutti del lavoro, difficile sottrarla ai contadini temprati dal sacrificio dei campi e dalla lotta per la sopravvivenza quotidiana. Non riuscì nemmeno ai bolscevichi. Non ci riuscirà l’intelligenza aritificiale col raggiro del progresso sostenibile.
Una sovrastruttura ideologica che ci vorrebbe terminale di consumi di massa squalificati, produzioni di disvalori globali a traino dell’economia di Stati canaglia dove il capitale digitale massimizza i profitti. Una svendita di civiltà che punta al controllo della catena di montaggio globale. Senza confini non c’è competitività, ma trasferimento di valore, impoverimento di competenze e svilemento di culture che la realtà storica si è incarica ta di porre al centro della civiltà.
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