Biden è il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America, ma il mondo dei Clinton e di Obama è comunque svanito e non ritornerà. La pandemia ha mandata fallita la globalizzazione e messa in crisi la democrazia. La pochezza dell’uomo nuovo, fabbricato con la malta del “politicamente corretto“, protagonista immaginario della generazione futuro come l’aveva teorizzata Obama nel suo discorso d’insediamento, civilizzata e priva di passato, si è mostrata chiaramente agli occhi della contemporaneità che a ben riflettere è sempre avanguardia della storia, prodotto di un nuovo passato. Calate nella pratica del reale, le utopie realizzate finiscono per esaurire ogni spinta di progresso e ripiegare inevitabilmente sulle posizioni di disagio iniziale che pur si pensavano superate. Così come fu per il collettivismo, lo è stato per l’utopia della globalizzazione con la quale si è pensato di poter far viaggiare la democrazia di pari passo al mercato. Abbattute regole e confini, ci siamo ritrovati in un mercato selvaggio dove politica e democrazia hanno avuto sempre minori spazi, rimpiazzate dalla finanza. La globalizzazione è stato il fattore determinante ad esempio, del neoimperialismo cinese condotto sulla via della seta in nome del mercato piuttosto che della democrazia. Lo stesso multilateralismo così tanto evocato dai liberal-progressiti, è lo strumento con il quale la dittatura di Pechino si è fatta scudo per aprirsi la strada verso nuove aree di conquista. Lo sviluppo di questo mondo è stato interrotto dall’avvento sulla scena di Trump e non ritornerà con Biden, ribascisce Giulio Tremonti, economista, fine pensatore, osservatore e studioso attento alle dinamiche globali che incidono direttamente sulla vita degli italiani. La pandemia, sostiene il prof. Tremonti, ha sabotato i meccanismi dei processi globalizzati e nemmeno al vaccino riuscirà di ripristinarli. Gli effetti devastanti in termini sociali, economici e soprattutto di approccio positivo all’espansione progressiva degli scambi, resteranno compromessi per sempre. La sfida che l’uomo nuovo, l’uomo obamiano, ha lanciato alle civiltà nel tentativo artificioso di riunirle sotto un unico ombrello politicamente corretto, è andata perduta. Gli stessi sistemi democratici sono stati messi in crisi dalle dinamiche dei mercati globalizzati che hanno di fatto disarmata la politica. Se prima i Parlamenti erano in grado di intervenire sulle cause endemiche delle crisi, oggi non possiedono strumenti d’intervento idonei e sufficientemente efficaci per rimuore gli ostacoli che si frappongono su scala planetaria. Non resta che una sola via per uscire dalla crisi, quella politica e non è certamente quella tecnica di stampare moneta ad libitum. L’eccesso di finanza combinato agli effetti disastrosi di una pandemia, può tirare giù l’intero sistema e dare corpo a rivoluzioni cruenti. E’ già accaduto nel corso della storia esattamente nei termini che si sono riproposti con la crisi del coronavirus. In un simile contesto, l’Italia investita da problemi che hanno origine fuori dai confini nazionali, sta assumendo sempre più i caratteri di un perverso laboratorio sperimentale alle prese con flussi migratori incessanti; finanza creativa; tecnologie incontrollabili e macchine ruba lavoro. Una sorta didelirio palingenetico che dovrebbe essere innescato da uno strumento tecnico a cui si è dato il nome di “recovery fund”, improponibile. Anche perché le dimensioni reali al netto dei nuovi prelievi europei introdotti e contributi versati dagli Stati, assommano all’incirca 40 miliardi di investimenti a fondo perduto in quattro anni. La restante quota che abbiamo contribuito a raccogliere, sono prestiti da restituire sia pur a condizioni di vantaggio. E per fortuna che l’Europa, dopo mesi di inerzia, ha cominciato ad esercitare i suoi poteri di coordinamento delle politiche di contenimento delle “afflizioni internazionali”, come definite dai Trattati, scegliendo il solo strumento politico privo di rischi monetari, gli eurobond che noi, sottolinea maliziosamente Tremonti, avevano inserito nel programma economico della Presidenza italiana del 2003. Una previsione di ampio respiro che anticipava gli eventi, si è rivelata la sola misura politica di ripresa e rilancio possibile, pur se a suo tempo contenstata e snobbata dagli Stati frugali.
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