Con ben cinque giornate di anticipo sulla fine del campionato di calcio 2022-2023, il Napoli si è aggiudicato il terzo scudetto della sua storia. Festa grande e fiumi di parole si sono sprecati. Intellettuali, artisti, sociologi e finanche antropologi si sono scomodati per spiegare, chiarire, ricostruire le trame di un successo altrimenti inspiegabile se non negli atti di fede sportiva dei tifosi appassionati dalle gesta dei campioni che scendono in campo a riscattare i destini segnati dei tanti che il successo non lo conosceranno fuori della dimensione collettiva dell’appartenenza. La capitale dimenticata del mezzogiorno d’Italia, popolata di assistiti dal reddito di cittadinanza, che nell’immaginario collettivo è sinonimo di area depressa a ritardo di sviluppo, palla al piede dell’economia nazionale, di colpo si è riscoperta operosa, disciplinata e vincente. Gli entusiasmi contagiosi hanno fatto ritrovare la voce finanche agli schivi, quelli che non si curano dell’immagine ed amano operare lontani dai riflettori. Tutti hanno offerto una propria chiave di lettura più o meno attendibile, manca forse quella che in tempo di economia globalizzata, si pensava essere un modello superato di capitalismo: l’impresa familiare. Se Milano e Torino si sono lasciate sedurre dal turbo capitalismo della finanza apolide, il successo della SSC Napoli, ci fa riscoprire il modello ambrosiano d’impresa a conduzione familiare. Il primato in un settore economico altamente competitivo e molto complesso per le numerose componenti variabili che concorrono al bilancio di amministrazione, ci insegna che Napoli e l’Italia intera, possono riprendere la via dello sviluppo produttivo, che è cosa ben più ricca e durevole del misero indotto turistico, ritagliandosi nella economia dei mercati globali, un ruolo da protagonista ben diverso da quello propugnato negli ultimi trent’anni. Attendere le elemosine di paesi terzi, spesso privi di autentica cultura d’impresa; svendere i propri saperi, conoscenze e competenze per qualche ora di lavoro sottopagato e poi vedere andare in fumo ogni speranza di futuro a distanza di qualche anno con la chiusura di fabbriche ed imprese che hanno fatto la storia della economia nazionale dopo averle svuotate e trasferite, si è rivelata una strategia interpretativa fallimentare della globalizzazione. Il successo del Napoli della famiglia De Laurentis, non va sottovalutato. Non è una manifestazione estemporanea di talento come lo fu l’improvvisazione del Napoli di Ferlaino, ma può rappresentare il modello di impresa che meglio si attaglia alla nostra cultura di lavoro. Un modello che non vuole rinchiudersi nei confini nazionali, ma opera e lavora allargando i propri orizzonti in maniera attiva, incisiva, da protagonista fattivo in una competizione a sottrarre talenti e materia prima per trasformarla con impegno ed ingegno tipicamente mediterranei. Un modello di impresa che non si svende al miglior offerente, ma cerca i migliori affari per arricchire il proprio patrimonio piuttosto che divenire di supporto ed ausilio al successo di altri. Ben vengano quindi gli affari in tutte le lingue se concorrono al successo economico nazionale piuttosto che offrirsi al banco dei mercati finanziari e lasciarsi spremere per poi restare con un pugno di mosche in mano a fine ciclo di lavoro.

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